PICTURA

di Salvatore Pupillo

Alessandro Vitiello Home Gallery – Roma | Ottobre 2021

Immagini in espansione: intervista a Salvatore Pupillo

by Alessandro Vitiello

Salvatore Pupillo è nato sull’Aventino nel 1956, sebbene la famiglia abitasse a Trastevere nella casa di via Mameli dove egli vive tutt’ora.

AV: Salvatore, ti senti un trasteverino doc?

SP: Senza dubbio. Ma ho conservato l’anima siciliana dei miei genitori, arrivati a Roma nel ’40, durante la guerra. Mio padre era impiegato in un negozio di orologi antichi. Pur non essendo un tecnico si dilettava a montare e smontare ingranaggi svizzeri, francesi o tedeschi. La sua vera passione, tuttavia, era la “trattativa” con i clienti. È proprio nel tira e molla sul prezzo che la sua passione per gli orologi, alcuni dei quali ancora conservo, si trasformava in genio. Mamma, invece, era casalinga, anche lei di Ferla, piccolo paese in provincia di Siracusa dove andavamo in vacanza tutte le estati.

AV: Sei nato nella Roma dei magnifici anni ’50 e cresciuto nella stagione più buia della nostra storia recente, appesantita dal piombo. Quanto le condizioni ambientali hanno contato nella tua formazione di individuo e di artista?

SP: Non molto. I miei amici sono stati e sono anche adesso i compagni delle scuole cristiane di viale Trastevere prima e poi del liceo scientifico J. F. Kennedy, dove ci iscrivemmo in massa. Siamo sempre stati molto legati e fino a qualche anno fa ci incontravamo nello spazio di un’associazione di ex alunni. Negli anni ’50, quindi, ero troppo giovane e così ancora nei primi anni che seguirono il maggio del ’68. Posso dire, comunque, di non essere mai stato attratto dalla politica, né di essere stato condizionato in particolar modo dagli eventi di quella complessa stagione, sebbene sarebbe impossibile dire di non aver respirato l’atmosfera – spesso molto pesante – che abbiamo vissuto fino alla metà degli anni ’80.

A parte i vecchi amici, insomma, sono sempre stato un solitario e non ho studiato all’Accademia, ragioni per cui ho frequentato poco gli artisti miei coetanei, come per esempio quelli che a via di Ripetta erano stati allievi dell’indimenticato Toti Scialoja o quelli della “scuola di piazza del Popolo”.

 

AV: Quando hai deciso o hai preso consapevolezza di essere un artista?

SP: Direi che non c’è stato un momento preciso, ma è stata una presa di coscienza in più fasi.

Quello che so è che a 11-12 anni ho iniziato a usare lapis e sanguigna, riproducendo le opere di Leonardo o di Cezanne. Tutt’ora mi piace molto disegnare e posso dire che lo schizzo è alla base del mio lavoro.

AV: Di cosa parli esattamente?

SP: Parlo della genesi del mio lavoro: quando ho l’ispirazione butto giù un certo numero di schizzi, anche 40 o 50, nei quali può rinvenirsi un elemento base comune, una sorta di struttura primaria. Poi ne scelgo uno, quello dal quale parto per realizzare il dipinto, e l’opera che si va formando e viene fuori alla fine non è detto che somigli in alcun modo al disegno dal quale sono partito o a uno degli altri cinquanta. I quali, dunque, altro non sono che l’elaborazione di forme che poi in sintesi vanno a svilupparsi sulla tela. Quel o quei disegni – ancora – possono essere stati sì l’ispirazione della mia nuova opera, ma non ne costituiscono la sostanza o l’essenza, tanto che in essa può anche non rimanerne alcuna traccia visibile o riconoscibile.

 

AV: Da cosa trai l’ispirazione?

SP: Io vado camminando, esploro, osservo continuamente e con attenzione il mondo: è lo stare fuori casa la mia principale fonte d’ispirazione, come del resto lo era per Rimbaud, per Nietzsche, per Rousseau, tutti grandi autori che odiavano stare chiusi negli interni e amavano girovagare col taccuino in mano. La prima fase del mio lavoro è l’osservazione della realtà, la seconda, quella esecutiva, è tutta nel mio studio.

 

AV: chi sono stati i tuoi maestri?

SP: Amo più autori, non uno solo. Amo quelli nelle cui opere si può riconoscere quella soavità, quella leggerezza che è tipicamente dell’aria o dell’acqua o ancora di un corpo osservato in assenza di gravità. Uno degli artisti del recente passato cui mi sento più vicino è Osvaldo Licini, con le sue Amalasunte “in sospensione”. Poi Vasco Bendini, e ultimamente l’americana Helen Frankenthaler, la cui mostra fatta a Roma qualche anno fa alla galleria Gagosian mi ha molto colpito.

 

AV: Ti sei definito solitario e autodidatta, infatti non hai frequentato l’Accademia di Belle arti e nemmeno hai fatto o fai parte di gruppi, scuole, circoli o salotti. Tuttavia hai appena nominato Vasco Bendini, uno dei primi talentuosi artisti che gravitavano intorno ai Sargentini, padre e figlio, sin dagli anni ’50…

SP: Tutti gli artisti che hanno gravitato intorno alla stella di Fabio Sargentini, prima all’Attico di piazza di Spagna, poi nel garage di via Beccaria e poi ancora a San Lorenzo, erano accomunati dall’essere parte dell’ambiente romano, caratteristica che può funzionare da filtro permettendo di individuare delle immagini comuni a tutti loro. Voglio dire che erano fondamentalmente dei figurativi. Gli astrattisti presenti nel gruppo, infatti, erano un’eredità di Sargentini padre, erano gli informali degli anni ’50.  Io comunque, che nel rapporto con galleristi e curatori sono sempre andato alla ricerca di empatia, con Fabio Sargentini andavo d’accordo nonostante lui avesse questa visione figurativa declinata alla romana, posta un po’ al confine con l’astratto. Nel 1999, infatti, l’eclettico gallerista scrisse un testo di presentazione a una mia esposizione personale. Posso dire, infine, che come curatori ho avuto soprattutto studiosi di spessore, ma poco militanti.

 

AV: Hai accennato al forte dualismo astratto/figurativo che in Italia negli anni ’60 assume i connotati di vera contrapposizione. Esiste ancora secondo te?

SP: Se questa contrapposizione è esistita ed esiste ancora io non l’ho vissuta, sia perché come dicevo sono sempre stato un solitario, sia perché io credo che l’arte, che sia astratta o figurativa, o “ti trafigge come le frecce con San Sebastiano  oppure è piatta (citazione dal sociologo Umberto Galimberti).

 

AV: Come definiresti la tua tecnica e il tuo stile?

SP: Io direi astratto con un minimo di minimal, consentimi il gioco di parole. La luce è la radice comune a tutti i miei quadri, che definirei come immagini sospese in espansione.

 

AV: In effetti alcuni tuoi quadri a me fanno pensare al Big Bang e alle teorie fisiche dell’espansione dell’universo. Cosa ne pensi?

SP: Non ho mai pensato alle teorie scientifiche sulla nascita dell’universo, tuttavia l’immagine di una forza in espansione c’è in diverse mie opere. Ma è appena accennata, visibile soprattutto in questa sorta di continuum materico che riempie completamente le mie tele senza lasciare alcuno spazio a “vuoti di energia”. E poi sì, c’è anche l’esplosione, ma presente anche qui come evento minimo, poco visibile e quindi mai tema centrale, piuttosto un indizio che somiglia – per dirlo alla Foucault – a “quel filo di fumo che fa pensare alla pipa di Magritte”.

 

AV: Parliamo ora dei materiali, dei supporti che hai utilizzato nel tempo: sono sempre gli stessi o hai cambiato? E secondo te l’arte è ricerca continua anche in questo senso?

SP: Ho sperimentato e sperimento soprattutto sul colore, che stendo su diverse superfici come fossero degli schermi, perché mi interessa vedere qual è la resa a seconda del materiale che fa da supporto. È questo il dualismo che mi interessa: scoprire quale forma assuma uno stesso elemento disegnato su due differenti superfici, una classica legata alla tradizione artistica, l’altra frutto dell’innovazione tecnologica. Un secondo aspetto che mi interessa indagare, inoltre, è l’incontro tra una superficie/supporto prodotto industrialmente e la pittura che rimane essenzialmente frutto della tecnica tradizionale dell’artista.

 

AV: Ora una domanda molto seriosa. Secondo te esiste una precisa funzione sociale e storica dell’artista? E poi, esiste una superiorità ontologica o etica dell’artista impegnato rispetto a quello che non lo è? Due esempi noti a tutti, uno del passato e uno più recente: con la Guernica Pablo Picasso volle espressamente richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sul terribile bombardamento nazi-franchista del piccolo borgo della Biscaglia nel 1937, così come in Balkan Baroque, presentata alla Biennale di Venezia del 1997, Marina Abramovic seduta su una montagna di carne e ossa bovine sanguinolente volle sensibilizzarci sulle stragi dei conflitti nella ex Jugoslavia.

SP: Non credo che l’artista abbia o debba avere un ruolo sociale particolarmente impegnato, ma più semplicemente io penso che quello dell’artista sia un lavoro come qualunque altro, senza nessuna pretesa didattica o grandi responsabilità etiche specifiche. Anche perché non sempre quello che fa un individuo rispecchia ciò che è realmente. Inoltre, a chi spetta giudicare qual è l’artista impegnato e quale non? Poi è chiaro che uno specifico accadimento o momento storico può essere terreno fertile per la produzione di opere particolari, quasi delle cronache per immagini, che colpiscano la sensibilità delle persone in un senso o in un altro.

 

AV: Questo forse rientra sempre in quel dualismo declinato nel senso che si può considerare più opera d’arte quella concettuale che esprime un pensiero forte o quella dove preponderante è la tecnica con cui l’artista la produce?

SP: Per me vale sempre lo stesso discorso, che l’opera deve colpire, anche su temi e soggetti del tutto ordinari, ma che l’artista interpreta a suo modo.

 

AV: La pandemia ha inciso sul tuo lavoro?

SP: La pandemia ha inciso positivamente sul mio lavoro in quanto mi ha dato la possibilità di concentrarmi particolarmente nella fase realizzativa. Nel mio studio, sempre a Trastevere, il lock down mi ha permesso di eliminare inutili perdite di tempo; insomma, ho tirato fuori degli aspetti positivi da una vicenda molto brutta.

 

AV: Alleggeriamo questa conversazione nel finale. Qual è la cosa che fai meglio nella vita? E cosa avresti fatto se non fossi stato un artista? Hai particolari scaramanzie o rituali che compi – che so – prima di una vernice?

SP: La cosa che so fare meglio di ogni altra è camminare, perché come ho detto all’inizio io camminando osservo e prendo spunti. Traggo l’ispirazione. E non so cosa avrei fatto se non mi fossi dedicato alla pittura, forse mi sarebbe piaciuto essere un musicista o forse mi sarei occupato di cultura attraverso altre forme di comunicazione.

Infine, nel lavoro non ho alcuna scaramanzia, mentre ne ho alcune in altri ambiti della vita quotidiana.

 

AV: Infine, facciamo il gioco della torre a risposta secca. Chi salvi e chi invece butti giù dalla torre tra:

 Leonardo e Michelangelo? Butto giù Michelangelo

 Manet o Degas? tengo Manet

 Picasso o Matisse? butto giù Picasso

 Bacon o Freud? butto Freud

 Pollock o De Koonig? tengo sicuramente Pollok


“Deserti i fiori e secche le viole; 

al veder nostro  il giorno non ha sole, 

la notte non ha stelle, senza di essa…”

Matteo Maria Baiardo